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giovedì 24 marzo 2011

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mercoledì 16 marzo 2011

I Paleoveneti, o Veneti antichi, o Veneti (da: Wikipedia.it)

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VenetiDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.(Reindirizzamento da Paleoveneti)

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I Veneti, a volte indicati anche come Venetici, antichi Veneti o Paleoveneti per distinguerli dagli odierni abitanti del Veneto, erano una popolazione indoeuropea che si stanziò nell'Italia nord-orientale dopo la metà del II millennio a.C. e sviluppò una propria originale civiltà nel corso del millennio successivo



Caso unico tra i popoli dell'epoca nell'Italia settentrionale, si può stabilire l'identità tra la popolazione e la cultura veneta, ovvero agli antichi Veneti è possibile attribuire una precisa cultura materiale e artistica sviluppatasi nel loro territorio di stanziamento, la Venezia. Questa facies culturale si sviluppò durante un lungo periodo, per tutto il I millennio a.C., anche se nel tempo subì diverse influenze. Di questa popolazione e identità la documentazione archeologica è particolarmente ricca.[1]



I Veneti si stanziarono inizialmente nell'area tra il Lago di Garda ed i Colli Euganei; in seguito si espansero fino a raggiungere confini simili a quelli del Veneto attuale, anche se bisogna considerare che la linea di costa del Mar Adriatico era più arretrata rispetto ad oggi. Secondo i ritrovamenti archeologici (che concordano anche con le fonti scritte), i confini occidentali del loro territorio correvano lungo il Lago di Garda, quelli meridionali seguivano una linea che parte dal fiume Tartaro, segue il Po e raggiunge Adria, lungo il ramo estinto del Po di Adria, mentre quelli orientali giungevano fino al Tagliamento. Oltre tale fiume erano insediate genti di ceppo illirico, anche se fino all'Isonzo la presenza veneta era tanto forte che si può parlare di popolazione veneto-illirica.[2] I confini settentrionali erano invece meno definiti e omogenei; il territorio veneto risaliva soprattutto i fiumi Adige, Brenta e Piave verso le Alpi, che fungevano comunque da confine naturale. La presenza veneta sulle Alpi è attestata soprattutto nel Cadore.



Indice [nascondi]

1 Etnonimo

2 Storia

2.1 Le origini

2.1.1 Il mito nella storiografia romana

2.1.2 Le ipotesi della storiografia moderna

2.1.3 Caratteri dell'insediamento veneto

2.2 L'apogeo (VIII-II secolo a.C.)

2.3 L'integrazione nel mondo romano

3 Società

3.1 Villaggi e abitazioni

3.2 Abbigliamento

3.3 Armi

4 Religione

5 Lingua

6 Cultura

6.1 Arte

7 Note

8 Bibliografia

8.1 Fonti primarie

8.2 Fonti secondarie

9 Voci correlate

10 Collegamenti esterni





[modifica] EtnonimoAi Veneti ci si riferisce anche con i termini Venetici, Heneti o Eneti. Sebbene nella storiografia, sia antica sia moderna, si impieghi correntemente il termine "Veneti", in opere di carattere non specialistico si ricorre talvolta al prefisso "paleo-" (="antico" > "Paleoveneti"), alla perifrasi "Veneti adriatici" o all'espressione "Venetici" per distinguere il popolo dell'antichità dagli attuali abitanti della regione italiana del Veneto.[3]



Il nome "Veneti" ricorre frequentemente nelle fonti classiche. Erodoto ricorda gli Eneti tra le tribù illiriche; nell'Europa centrale Tacito localizza i Veneti, i Venedi e i Venedae, distinguendoli dai Sarmati; Pomponio Mela cita il lago di Costanza come Venetus lacus; infine Venetulani sono un popolo laziale scomparso citato da Plinio. La frequenza di questo etnonimo in diverse aree europee non va però spiegata con ipotetici legami storici e linguistici tra i diversi popoli che ne hanno fatto uso, quanto piuttosto con un'uguale derivazione, più volte ripetuta in modo indipendente, dalla medesima radice indoeuropea *wen ("amare"). I "Veneti" (*wenetoi) sarebbero pertanto gli "amati", o forse gli "amabili", gli "amichevoli".[4]



[modifica] StoriaLa storia dei Veneti si può dividere in due momenti: uno antico, che va dalle origini fino al V secolo a.C., in cui è più evidente l'originalità culturale veneta, e uno più recente che va fino al I secolo d.C., che vede prima un influsso celtico, e poi una lenta assimilazione romana.



Nel periodo antico vi erano rapporti culturali con la Civiltà villanoviana, con l'Egeo e l'Oriente, e successivamente anche con gli Etruschi. Nel periodo più recente i Veneti vennero a contatto prevalentemente ad occidente con i Galli: ad ovest si stanziarono i Galli Cenomani (con cui si sarebbero alleati, insieme ai Romani), a sud i Boi (con cui invece furono sovente in guerra) e a nord-est i Carni, ad est e a sud-est rimasero prevalentemente in contatto con le popolazioni illiriche. Anche all'interno del Veneto vi fu qualche stanziamento di Galli, anche se in minima entità, probabilmente non sempre di tipo pacifico. L'influsso culturale celtico diventò comunque via via importante, e la cultura veneta lentamente mutò e si adeguò ai tempi; sempre importante si mantenne il rapporto con le popolazioni balcaniche di oltre Adriatico come quelle illiriche, con cui i Veneti venivano facilmente confusi dagli storici greci e che furono considerati parenti stretti dei Veneti fino al primo Novecento. Successivamente divenne decisivo il contatto con la civiltà romana, anche per i reiterati rapporti di alleanza che legarono i Veneti ai Romani e per la tradizionale ipotesi di parentela tra Veneti e Latini. La cultura veneta venne assimilata in quella romana già in età tardo repubblicana, anche se alcune specificità venete permasero, presumibilmente, nelle zone marginali anche in tarda età imperiale.



[modifica] Le origini

Elmo pileato veneto da Oppeano (V secolo a.C.). Firenze, Museo archeologico nazionale[modifica] Il mito nella storiografia romanaSecondo la storiografia romana,[5] i Veneti sarebbero stati una popolazione proveniente dalla Paflagonia, regione dell'Asia Minore sul Mar Nero. Essi furono da lì espulsi, e per questo parteciparono alla Guerra di Troia, dove l'anziano saggio Antenore implorò i troiani stessi di restituire Elena ai Greci. A Troia morì anche il capo degli Eneti (venivano così chiamati), che, senza patria e senza guida, si rivolsero ad Antenore che, dopo varie vicende, approdò sulle coste occidentali del Mar Adriatico settentrionale. Qui la popolazione scacciò gli Euganei, una popolazione di cui oggi non rimangono tracce rilevanti.



Nel racconto di Virgilio,[6] Antenore viene addirittura presentato come fondatore di Padova. Ai Veneti viene associato pure Diomede, eroe divinizzato, il quale avrebbe fondato, oltre a Spina, anche l'importante città portuale di Adria, anche se l'abitato, pur avendo in effetti origini venete, è più conosciuta come emporio greco, come centro etrusco e successivamente gallico.



Plinio il Vecchio parla dei Veneti riferendo ciò che aveva scritto Catone:



(LA)

« Venetos troiana stirpe ortos auctor est Cato » (IT)

« Catone attesta che i Veneti discendono dalla stirpe troiana »

(Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, III, 130)



Strabone invece riporta un'ipotesi diversa,[7] ovvero che i Veneti fossero una popolazione celtica: questo, perché egli era a conoscenza dell'esistenza di una popolazione portante lo stesso nome, i Veneti dell'Armorica (l'odierna Bretagna).[8]



[modifica] Le ipotesi della storiografia moderna

Vaso veneto a forma di situla del VI-V secolo a.C.Le fonti antiche concordano nel parlare dei Veneti come di una popolazione giunta nella sua sede storica da una regione orientale, che raggiunse via mare l'Adriatico settentrionale e sbarcò nella costa occidentale; qui respinsero più a nord la popolazione nativa. Se l'ipotesi che vede nei Veneti una popolazione orientale, frazionata e dispersa dopo un'ampia diaspora, è abbastanza realistica,[9] non lo è affatto l'ubicazione della loro patria originaria in un'area di cultura greca, e nemmeno la narrazione di uno spostamento via mare.



Per lungo tempo, la storiografia moderna ha accettato l'ipotesi, ispirata ad Erodoto, di una filiazione illirica dei Veneti, che sarebbero quindi stati il ramo più occidentale di quell'insieme di popolazioni indoeuropee. Nelle sue Storie,[10] lo storico greco parla degli Ἐνετοί come di una parte del popolo illirico, stanziata presso l'Adriatico. La tesi dell'illiricità dei Veneti, sostenuta principalmente da Carl Pauli a fine XIX secolo, continuò a essere largamente condivisa anche quando, nella prima metà del XX secolo, Vittore Pisani e Hans Krahe dimostrarono che Erodoto si riferiva in realtà a una tribù illirica stanziata nella Penisola balcanica, e non in area italica.[3]



La ricerca più recente, lavorando principalmente su materiale linguistico, è giunta a escludere una filiazione illirica per i Veneti, secondo quanto proposto già negli anni quaranta dallo stesso Krahe. Dopo un'iniziale proposta di legare la lingua venetica alle lingue italiche (osco-umbro), ha in seguito trovato maggior credito il riconoscimento del venetico come parte della famiglia latino-falisca, comprendente anche il latino.[11] Su questo punto, tuttavia, l'indagine dell'indoeuropeistica è ancora aperta; più prudente, ad esempio, Francisco Villar[12].



La ricerca moderna, in questo modo, si è trovata in sostanziale accordo con quanto sostenuto già dalla storiografia latina: i Veneti condividono con i Latini una comune origine protostorica, anche se non attraverso quel comune legame con l'Antica Grecia (e con Troia in particolare) postulato dai Romani mediante il mito di Antenore. L'insieme indoeuropeo veneto-latino si era formato come gruppo a sé in un'area dell'Europa centrale, probabilmente ubicato entro i confini dell'odierna Germania e parte di un vasto continuum indoeuropeo esteso nell'Europa centro-orientale fin dagli inizi del III millennio a.C.[13] Da qui mosse verso sud nel corso del II millennio a.C., probabilmente intorno al XV secolo a.C.;[14] mentre una parte di queste genti proseguì fino all'odierno Lazio (i Latini), il gruppo che avrebbe dato origine ai Veneti si insediò a nord del Golfo di Venezia e lì si attestò definitivamente.



[modifica] Caratteri dell'insediamento venetoI migranti che giunsero nell'area veneta dalle regioni nord-orientali erano più probabilmente piccoli gruppi di colonizzatori, piuttosto che un'ingente massa di popolazione. Al di là delle questioni sulla loro origine, i Veneti erano di cultura articolata, abili guerrieri e commercianti arrivati. È probabile che i nuovi colonizzatori si siano sovrapposti alle popolazioni nativa (gli Euganei preindoeuropei).[15]



[modifica] L'apogeo (VIII-II secolo a.C.)I Veneti crearono una cultura unitaria che ebbe il suo massimo sviluppo tra l'VIII e il II secolo a.C., una cultura nettamente differenziata rispetto alle altre dell'Italia protostorica. Peculiarità di questa popolazione, presenti in tutto il territorio in cui erano stanziati, erano soprattutto le produzioni bronzee e fittili, le forti credenze religiose, le espressioni artistiche, l'agricoltura, armature e vestiti, lo strutturarsi di nuclei prima protourbani e quindi urbani e l'allevamento di bestiame.[16]



[modifica] L'integrazione nel mondo romano

Vaso venetoLa regione cispadana era abitata nel III secolo a.C. da numerose popolazioni bellicose – in particolare, i Galli che a partire dal secolo precedente avevano fatto irruzione nella regione – e i Romani si rivolsero, per ottenere aiuto, ai Veneti, poiché li ritenevano consanguinei per via della leggenda di Antenore.[17] Romani e Veneti stabilirono rapporti di amicizia e di alleanza (già nel 283 a.C. il Senato romano aveva stretto un patto con i Veneti ed i Galli Cenomani per rallentare l'invasione gallica). Probabilmente i contatti avevano avuto inizio più anticamente, già nel 390 a.C.: infatti, quando i Galli Senoni di Brenno occuparono la stessa Roma, fu forse proprio grazie ad un'azione diversiva dei Veneti che potrebbero essere stati costretti a venire a patti con i Romani.[18]



Nel 225 a.C. i Romani mandarono ambasciatori presso i Veneti ed i Galli Cenomani per stringere un'alleanza contro i Galli Boi e gli Insubri, che minacciavano le frontiere romane, ed essi rimasero dalla parte romana anche durante la Seconda guerra punica, mentre tutte le altre popolazioni galliche si erano schierate con Cartagine[19]. Al termine della guerra, per poter completare la sottomissione della Gallia cisalpina (Galli e Liguri non accettavano la supremazia romana), Roma cominciò una vera e propria guerra di conquista, sempre sostenuta da Veneti e Cenomani. È probabile che in questo momento storico i Veneti fossero legati ai Romani tramite amicitia, diversamente dai Galli legati a Roma dal foedus: questo legame era utilizzato soprattutto negli Stati ellenistici, e prevedeva la neutralità, che poteva diventare alleanza solo in via eccezionale.[20]



I Veneti non appaiono come un popolo bellicoso, e non furono coinvolti in battaglie o guerre importanti. Tuttavia non furono isolati, anzi intrattennero rapporti commerciali e culturali con la vicina Etruria e mutuarono certe caratteristiche artistico-sociali dai mercanti greci delle colonie. Ebbero con Roma rapporti amichevoli e si giovarono dell'aiuto della città laziale per allontanare la minaccia costituita dall'invasione dei Galli: in cambio di protezione, permisero ai Romani di stabilirsi pacificamente nel loro territorio, e in definitiva di colonizzarlo costruendo strade, ponti e villaggi. Il Veneto non venne quindi conquistato con la forza dai Romani, ma fu inglobato pacificamente e, con il tempo, la cultura veneta si perse e venne sostituita (in parte assimilata) dalle usanze di Roma.



[modifica] Società[modifica] Villaggi e abitazioniI Veneti si stanziarono dapprima in piccoli villaggi, principalmente tra l'Adige e il Lago di Garda, ma anche nelle zone prealpine della Valbelluna, essendo allora la pianura Padana ricoperta da boschi e zone paludose. Una delle maggiori necropoli venete, perfettamente conservata, si trova infatti a Mel, tra Belluno e Feltre. I centri abitati sorgevano lungo i corsi d'acqua su dossi sabbiosi (dato che la sabbia è molto permeabile e si asciugava velocemente) e sulle colline.[21] I nuovi abitati erano costituiti di poche capanne rettangolari raggruppate e collegate le une alle altre; quando il villaggio si espandeva, si costruivano abitazioni con più ambienti, e con parti riservate ad attività artigiane.



Le case erano formate da pareti con uno scheletro in legno, che veniva solitamente ricoperto di argilla, mentre la base era in pietra, in modo da ridurre l'umidità. I pavimenti erano di argilla battuta, mentre il tetto era di paglia. Il cuore delle abitazioni era il focolare, realizzato da una base di argilla sulla quale erano stesi frammenti di ceramiche e ciottoli (in modo che trattenessero il calore, agendo da isolante); attorno a esso si raggruppava la famiglia. I centri maggiori erano dotati anche di porti: non solo quelli lungo la costa, ma anche quelli situati lungo fiumi con sufficiente portata d'acqua. In quest'ultimo caso veniva scavata una rete di canali, consentendo così l'attracco di barche.[22]



Sempre attorno ai centri più grossi i Veneti iniziarono il disboscamento delle foreste, e si organizzarono in centri abitati sempre più grossi, soprattutto lungo i fiumi Adige, Brenta e Piave. Le maggiori città furono Este, Altino, Padova, Montebelluna, Oppeano e Gazzo Veronese.[23]



Le abitazioni sorte in aree montagnose erano differenti rispetto a quelle costruite in pianura o collina: si trattava di case seminterrate, con fondamenta in pietra ed elevazione in legno, esposte preferibilmente verso sud, in modo da ricevere la maggior quantità possibile di luce e calore.[22]



[modifica] Abbigliamento

Statuetta bronzea del VIII secolo a.C. raffigurante un guerriero, importato dai Veneti e utilizzato come corredo funebre[24]Dai reperti archeologici, tra i quali abbondano le rappresentazioni di sacerdoti, capi e notabili, si può inferire che i Veneti portavano grandi mantelli di lana pesante, che venivano appoggiati sulle spalle. Sotto il mantello, donne e uomini portavano una tunica di stoffa (più leggera rispetto al mantello), con maniche che potevano essere lunghe o corte, simili a quelle portate da Romani ed Etruschi. Nelle donne la tunica era spesso trattenuta da un cinturone (il quale veniva utilizzato anche dagli uomini e dai ragazzi), da cui, nella parte inferiore, si formavano delle pieghe. In alcuni casi esse vi sovrapponevano dei grembiuli. Le donne portavano anche, in testa o sulle spalle, uno scialle (o mantellina), simile a quello utilizzato in Veneto (soprattutto a Venezia e nella fascia montana) fino al Novecento.[25] I Veneti portavano anche i cappelli, segni di distinzione e dalla tesa larga e rialzati sui bordi, stivali, utilizzati soprattutto per cavalcare, e calzature a punta. Dalle immagini pervenuteci si può vedere come era usanza maschile radersi il capo.



Sono arrivati sino ad oggi anche numerosi ornamenti del vestiario, come spilloni, pendagli, fibule, collane, braccialetti e orecchini, realizzati anche con materiali preziosi come oro, argento, corallo, ambra e perle.



[modifica] ArmiI guerrieri portavano inizialmente scudi rotondi simili a quelli degli opliti greci, elmi a calotta bassa e con una cresta, e venivano spesso rappresentati con lance a punta larga. Successivamente si diffusero grandi spade, scudi di forma ovoidale ed elmi simili a quelli utilizzati dai Galli.



[modifica] ReligioneNon vi sono molte notizie scritte circa la religione veneta, ma sono stati ritrovati numerosi luoghi di culto, necropoli e materiale votivo. I luoghi di culto non erano quasi mai situati in edifici chiusi, ma i riti si svolgevano solitamente in boschi sacri, in luogo libero da vegetazione e circondato da grandi alberi.[26] All'interno si svolgevano processioni con canti e danze sacre, e all'interno di piccole edicole in legno vi erano rappresentazioni sacre. La quantità dei siti fa presumere l'esistenza di una classe sacerdotale, il cui compito era l'accensione dei fuochi sacri e i sacrifici animali, oltre a quello di scrivere (la scrittura era un privilegio di pochi).[26]



Nelle necropoli venete si possono distinguere fra i doni modesti dei ceti meno abbienti e quelli dei più ricchi, i quali venivano depositati insieme alle spoglie come corredo funebre. Il corpo del defunto veniva cremato e le ceneri erano poste in apposite urne e, durante la sepoltura, si offrivano alle divinità cibo e bevande (si praticava, dunque, il rito del banchetto funebre).[26] Si è a conoscenza della presenza del culto degli elementi naturali, e in particolare dell'acqua medicamentaria (o per lo meno ritenuta tale), mediante la quale la divinità interveniva dando la guarigione: la cerimonia prevedeva la richiesta di guarigione da parte del malato, una processione e quindi vi erano le offerte a qualche idolo.[26]



Ad Este è stata rinvenuta una lamina da cui si può ricavare il nome di una divinità: Reitia, dea guaritrice, della natura, protettrice delle nascite e dea della fertilità.[26] Essa viene rappresentata con i tipici abiti veneti e con in mano la chiave per aprire la porta dell'aldilà.



[modifica] Lingua Per approfondire, vedi la voce Lingua venetica.



La lingua dei Veneti, detta dai linguisti lingua venetica o semplicemente lingua veneta, è documentata da iscrizioni risalenti a un arco di tempo compreso tra il VI e il I secolo a.C. e redatte prima in un alfabeto etruscoide (dal quale differiva per varie aggiunte, per esempio quella della vocale /o/), poi in alfabeto latino (entrambi derivati da quello greco).[27] Questa lingua è di classificazione incerta; tuttavia, condivide numerosi tratti fonetici e morfologici con il latino, tanto da condurre Giacomo Devoto e diversi altri studiosi a ipotizzare una parentela genetica tra i due idiomi, giunti in Italia nel corso di uno stesso movimento migratorio di elementi indoeuropei dall'Europa centrale o centro-orientale.[28]



[modifica] Cultura[modifica] Arte

La Situla BenvenutiPeculiaria dei Veneti era la cosiddetta "arte delle situle". Queste situle venivano create tramite la lavorazione del bronzo in lamine, che venivano modellate e ricongiunte a formare non solo situle, ma anche più in generale vasi, coperchi, cinture e foderi di pugnali e spade. Le lamine venivano lavorate a sbalzo, ovvero l'artista batteva la lamina dal rovescio, facendo così sollevare al diritto le forme volute, creando un bassorilievo.



Con i Veneti si passò per la prima volta[29] dalla raffigurazione geometrica a quella di figure naturali e umane, come si può vedere nell'importante Situla Benvenuti. Questa situla, della quale manca la parte inferiore (che terminava in un basso piede svasato), era parte del corredo funebre di una tomba femminile, scoperta nella necropoli Benvenuti. Essa è il primo e più importante esempio di situla con raffigurazioni umane. Sono visibili tre fasce in cui sono rappresentate uomini, attività umane (guerra, gare, commercio) e figure mitologiche.[30]



Gli unici precedenti – soltanto per ciò che riguarda la forma – delle situle venetiche sono manufatti orientali e centro-europei.[29] Per quanto riguarda, invece, i soggetti raffigurati, l'unico precedente è il tintinnabulo della Tomba degli ori di Bologna, del VII secolo a.C.[29] Quest'arte nacque probabilmente in ambito veneto, dove si sviluppò per secoli passando da forme più naturali a forme più artificiose, in un certo senso "barocche".[29] Gli ultimi esempi ad oggi conosciuti di questa arte sono le laminette dei donari.[29]



[modifica] Note1.^ Aspes, op. cit., p.661

2.^ Aspes, op. cit., p.663

3.^ a b Villar, op. cit., p.490

4.^ Villar, op. cit., pp.415-16

5.^ Aspes, op. cit., p.670

6.^ Virgilio. Eneide. I, 242-249

7.^ Strabone. Geografia. V,3

8.^ Le fonti antiche hanno spesso ipotizzato che i Veneti avessero la stessa origine dei Veneti della Gallia, citati da Cesare. Questa teoria, basata su somiglianze linguistiche superficiali (onomastica), non trova nessuna conferma nei dati linguistici, che anzi escludono una filiazione celtica dei Veneti; Villar, op. cit., p.415-416

9.^ Aspes, op. cit., p.672

10.^ Erodoto, Storie, I, 196; V, 9.

11.^ Tesi articolata, tra gli altri, da Aldo Prosdocimi in Popoli e civiltà dell'Italia antica; cfr. Villar, op. cit., p. 490

12.^ «Se è vero che tutti questi tratti rendono il veneto simile alle lingue italiche in generale e alla latina in particolare, è anche vero che ne presenta altri che invece lo differenziano da esse. [...] Per esso si pone lo stesso problema [...] se siano più antiche le coincidenze o le differenze». Villar, op. cit., p. 491

13.^ Villar, op. cit., pp.633-634

14.^ Villar, op. cit., p.480

15.^ Aspes, op. cit., p.674

16.^ Antichità: i Signori dei cavalli. Focus Storia (17).

17.^ Buchi e Cavalieri Manasse, op. cit., pp. 3-4, 52

18.^ Plutarco. De fortuna Romanorum. 12, 325.

19.^ Buchi e Cavalieri Manasse, op. cit., p. 15

20.^ Buchi e Cavalieri Manasse, op. cit., p.20

21.^ Secondo lo schema, tipicamente indoeuropeo, della "fortezza di collina" (indicata dai latini con il termine "oppidum").

22.^ a b Aspes, op. cit., p.678

23.^ Aspes, op. cit., p.675

24.^ Aspes, op. cit., p.681

domenica 13 marzo 2011

Novità sul caso-Yara

Ti riporto almeno due notizie sul caso Yara Gambirasio, che, del resto, avrai ascoltato anche tu.

Oggi, infatti, il telegiornale ha affermato che Yara non dovrebbe essere stata "eliminata" da una setta satanica.. e che a ucciderla sono stati un coltello ed un corpo contundente, tipo un sasso, il che fa pensare agli inquirenti che l'omicidio della giovane di Brembate non solo non fosse, presumibilmente, premeditato, ma che sia stato casuale..

Ciò scritto, ciò informato, ho già finito...

I massacri delle Foibe (da: "Wikipedia") - Il post è molto lungo, ma è una rilevazione storica che spero d'interesse!

Massacri delle foibeDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.(Reindirizzamento da Foibe)


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Disambiguazione – "Foibe" rimanda qui. Se stai cercando la descrizione geologica delle foibe, vedi Foiba.

Coordinate: 45°37′54″N 13°51′45″E / 45.63167°N 13.8625°E / 45.63167; 13.8625

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Il monumento collocato all'ingresso della "foiba" di BasovizzaCon massacri delle foibe, o più comunemente foibe, si intendono gli eccidi perpetrati per motivi etnici e/o politici ai danni della popolazione italiana di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, durante ed immediatamente dopo la seconda guerra mondiale[1], per lo più compiuti dall' Esercito popolare di liberazione iugoslavo.[2] Negli eccidi furono coinvolti prevalentemente cittadini di etnia italiana e, in misura minore e con diverse motivazioni, anche cittadini italiani di etnia slovena e croata.



Il nome deriva dagli inghiottitoi di natura naturale carsica dove furono gettati e, successivamente, rinvenuti i cadaveri di centinaia di vittime, localmente chiamati appunto "foibe". Per estensione i termini "foibe" ed il neologismo "infoibare" sono in seguito diventati sinonimi degli eccidi, che in realtà furono, in massima parte, perpetrati in modo diverso[3][4].



Nonostante la ricerca accademica abbia, fin dagli anni '90, sufficientemente chiarito gli avvenimenti[5], nell'opinione pubblica italiana la conoscenza del tema delle foibe continua a essere influenzata da tesi di parte, che pongono l'enfasi sulle responsabilità che comunismo e fascismo hanno avuto nella vicenda[6].



Indice [nascondi]

1 Inquadramento storico

1.1 La composizione etnica di Venezia Giulia e Dalmazia

1.2 Gli opposti nazionalismi

1.3 Le tesi del nazionalismo croato

1.4 Grande Guerra e annessione all'Italia

1.5 L'italianizzazione fascista

1.6 L'invasione della Iugoslavia

1.7 Il fronte iugoslavo

2 Gli eccidi

2.1 1943: armistizio e prime esecuzioni

2.2 L'armistizio in Dalmazia

2.3 L'occupazione tedesca della Venezia Giulia

2.4 I ritrovamenti dell'autunno 1943

2.5 Dalmazia 1944

2.6 Primavera 1945: l'occupazione della Venezia Giulia e la nuova ondata di eccidi

2.7 Gli eccidi a Trieste ed in Istria

2.8 Gorizia e provincia

2.9 Fiume

3 Cause

4 Vittime

4.1 Tipologia delle vittime

4.2 Modalità delle esecuzioni

4.3 Quantificazione delle vittime

4.4 Testimonianze

4.5 Vittime di nazionalità slovena e croata

5 La memoria delle foibe fra oblio, strumentalizzazioni e ricerca storica

5.1 L'oblio del dopoguerra

5.2 Il riemergere della vicenda negli anni '90

5.3 Processi a criminali di guerra

5.4 Le tesi militanti

5.4.1 Comunismo e fascismo: il dibattito sulle responsabilità

5.4.2 Responsabilità del regime comunista iugoslavo

5.4.3 La posizione del Partito Comunista Italiano

5.4.4 Negazionismo sulle foibe

5.4.5 Tesi sul primo utilizzo delle foibe

5.5 Il punto di vista sloveno e croato

5.6 Il ricordo e la memoria

6 Elenco di foibe

7 Note

8 Bibliografia

8.1 Nota alla bibliografia

8.2 Saggi storici

8.3 Romanzi

9 Voci correlate

9.1 Personalità legate alle foibe

10 Collegamenti esterni





[modifica] Inquadramento storicoGli eccidi delle Foibe ed il successivo esodo costituiscono l'epilogo di una secolare lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni slave (prevalentemente croate e slovene, ma anche serbe) e italiane.



Tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio e che fu legato all'affermarsi degli Stati nazionali in territori etnicamente misti. Le realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in buona parte dell'Europa centrale, sud-orientale e nel vicino oriente ne uscirono in grande parte distrutte[7]. Furono decine di milioni le persone coinvolte nei conseguenti processi di assimilazione od emigrazione forzata, che provocarono milioni di vittime. Fra gli episodi più noti si ricordano il Genocidio Armeno, il drammatico scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia e l'esodo dei tedeschi dall'Europa orientale.



Le radici di questo fenomeno vanno ricercate nella fine dell'ancien régime, un sistema dove gli Stati erano il risultato delle lotte di potere delle classi dominanti (monarchie o, in qualche caso, oligarchie). Con la rivoluzione francese e la conseguente deligittimazione del potere monarchico, gli Stati trovarono la loro legittimità nel concetto di popolo, inteso come una comunità cementata da una comunanza di razza, religione, lingua, cultura ed avente quindi il diritto a formare il proprio Stato. Man mano che le singole popolazioni si identificavano in specifiche nazioni (che inizialmente - in molti casi - erano indefinite e controverse), si vennero a creare diverse occasioni di conflitto. Ad esempio quando una nazione rivendicava territori abitati da propri connazionali e posti al di fuori dei confini del proprio Stato. Oppure quando specifiche minoranze etniche cercavano la secessione da uno Stato, sia per formare una nazione indipendente, sia per unirsi a quella che consideravano la nazione madre. Una terza fonte di conflitto fu provocata dal tentativo, da parte di molte nazioni, di assimilare od espellere le minoranze etniche dal proprio Stato, considerandole realtà estranee o un pericolo per la propria integrità territoriale.



[modifica] La composizione etnica di Venezia Giulia e Dalmazia Per approfondire, vedi le voci Istria e Storia della Dalmazia.





Suddivisione linguistica dell'Istria e del Quarnero in base al censimento austriaco del 1910.

██ italiano (veneto e istrioto)



██ serbocroato



██ sloveno



██ istrorumeno

Prima del XIX secolo, in Venezia Giulia e Dalmazia, avevano convissuto popolazioni di lingua romanza e slava, che non avevano fra di loro tensioni dovute ad ancor inesistenti concetti di nazionalità (le diverse etnie, viceversa, erano in larga misura mischiate).[8] Vi era una differenza di carattere linguistico - culturale fra la società urbana e marittima (prevalentemente romanzo-italica) e quella rurale e montana (per lo più slava o slavizzata). Nell'entroterra montano erano presenti inoltre comunità morlacche di origine illiro - romana che si slavizzarono progressivamente. Le classi elevate (aristocrazia e borghesia) erano dovunque di lingua e cultura italiana, anche se di origine slava.



[modifica] Gli opposti nazionalismiCon la Primavera dei Popoli del 1848-49, anche nell'Adriatico orientale, il sentimento di appartenenza nazionale cessò di essere una prerogativa delle classi elevate e cominciò, gradualmente, a estendersi alla masse. Fu solo a partire da tale anno che il termine "italiano" (ad esempio) cessò di essere una mera espressione di appartenenza geografica o culturale e cominciò ad implicare l'appartenenza a una "nazione" italiana. Il processo di identificazione in specifiche nazioni in queste terre, non fu lineare e l'esito non fu affatto scontato. In Istria in un primo tempo non si faceva distinzione fra sloveni e croati, visti come un singolo popolo. In Dalmazia inizialmente si inseguì l'ideale di una nazione dalmata, che racchiudeva in se radici slave e romanze: fu solo a seguito dell'insorgere del nazionalismo croato che i propugnatori di tale ideale adottarono col tempo una politica filo italiana.



Alla fine del processo si definirono le moderne identità nazionali: italiani, sloveni, croati e serbi. Si originò di conseguenza quella contrapposizione etnica che fu la causa remota dei massacri delle foibe. È bene ricordare che simili tensioni sono caratteristiche di diverse zone ad etnia mista e ancor oggi possono sfociare in episodi violenti (come in Irlanda del Nord, nei Paesi Baschi o nell' ex - Iugoslavia). Il sorgere dell' irredentismo italiano portò il governo asburgico a favorire il nascente nazionalismo di sloveni[9] e croati, nazionalità ritenute più leali ed affidabili rispetto agli italiani.[9] Si intendeva così contrastare non solo le ben organizzate comunità cittadine italiane ma anche l'espansionismo serbo, che mirava ad unificare tutti gli slavi del sud. Di conseguenza in Dalmazia si verificò una costante diminuzione della popolazione italiana, in un contesto di repressione e violenza[10]. Nella Venezia Giulia il decremento della componente italiana fu molto più contenuto.



Le tensioni fra le diverse nazionalità, pertanto, già presenti sotto la dominazione austriaca, non trassero la propria origine dall'avvento delle politiche nazionalistiche e di repressione dell'elemento slavo applicate del fascismo, anche se il fascismo acuì i contrasti fino alla degenerazione della situazione[9][11].



[modifica] Le tesi del nazionalismo croato Per approfondire, vedi la voce Croatizzazione.





Antonio Bajamonti in una cartolina propagandistica dei primi del '900 « La nazionalità italiana in Dalmazia è una parola vuota di senso, trovata dall'interesse, dall'impostura. Alcuni superstiti dei vecchi despoti sognano una nazionalità italiana in Dalmazia, e per il colmo dell'assurdo parlano anche di civiltà italiana. Tutto ciò mira all'interesse di pochi individui e all'oppressione di tutti i Dalmati. (...) Il giornalismo italiano badi prima di dichiararsi protettore dei pseudoitaliani della Dalmazia (...). Un italiano non può, non deve alzar la voce per difendere i despoti, poiché prima deve rinunziare alla vera gloria italiana, ch'è la lotta per la libertà; dovrebbe cancellare tutta la sublime epopea dell'italiano risorgimento, per dichiararsi amico degli italiani dalmati. »

(Ludovico/Ljudevit Vuličević, Partiti e lotte in Dalmazia, Trieste 1875[12])

« Nessuna gioia, solo dolore e pianto, dà l'appartenere al partito italiano in Dalmazia. A noi, italiani della Dalmazia, non rimane che un solo diritto, quello di soffrire. »

(Antonio Bajamonti, Discorso inaugurale della Società Politica Dalmata, Spalato 1886)



Nell'ambito dei succitati conflitti nazionali nacque fra i croati l'idea che Istria, Fiume e Dalmazia fossero parte integrante del loro territorio nazionale fin dall'alto medioevo. Non si riconosceva la presenza di comunità italiane autoctone né in Dalmazia, né a Fiume (e solo parzialmente in Istria). Tali comunità venivano considerate una realtà estranea (come i pieds noirs in Algeria e i russi nelle Repubbliche Baltiche e in Moldavia), frutto di "invasioni straniere" che avevano italianizzato parte della popolazione croata originaria. Gli italiani "veri" dovevano quindi essere espulsi, mentre i "croati italianizzati" dovevano essere riportati alla loro condizione originaria, anche prescindendo dalla loro volontà. Questa retorica nazionalista fornì una giustificazione morale agli avvenimenti.



[modifica] Grande Guerra e annessione all'ItaliaNel 1915 l'Italia entrò nella Grande Guerra a fianco della Triplice Intesa, in base ai termini del Patto di Londra, che le assicuravano il possesso dell'intera Venezia Giulia e della Dalmazia settentrionale - incluse molte isole. La città di Fiume, invece, veniva espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un eventuale futuro stato croato o dell'Ungheria, se la Croazia avesse continuato ad essere un banato dello stato magiaro o della Duplice Monarchia[13].



Al termine delle guerra, coi trattati di Saint Germain e di Rapallo l'Italia ottenne solo parte di ciò che le era stato promesso: le fu infatti negata la Dalmazia (dove ottenne solo la città di Zara e alcune isole).





Cartina della Dalmazia e della Venezia Giulia coi confini previsti dal Trattato di Londra e quelli invece effettivamente ottenuti dall'ItaliaRimase aperta la questione di Fiume, che fu rivendicata dall'Italia sulla base dello stesso principio di autodeterminazione che aveva fatto assegnare al regno iugoslavo le terre dalmate, già promesse all'Italia. Al termine di una lunga contesa, Fiume fu annessa all'Italia nel 1924.



I territori annessi erano abitati da consistenti minoranze slave (slovene e croate), i cui diritti fondamentali, pur con alcune limitazioni, furono rispettati dal Regno d'Italia. Si verificarono, tuttavia, incidenti provocati da gruppi nazionalisti e dal nascente fascismo, che proprio in Venezia Giulia condusse alcune delle sue azioni più violente (il cosiddetto "fascismo di frontiera").





L'Hotel Balkan sede del Narodni Dom dopo l'incendio (1920)L'episodio più noto fu l'incendio del Narodni dom ("Casa nazionale slovena") di Trieste ad opera di squadristi fascisti. Tale incidente assunse a posteriori un forte significato simbolico, venendo ricordato come l'inizio dell'oppressione italiana contro gli slavi.



Violenze analoghe avvennero contro le minoranze (anche italiane) rimaste sotto l'amministrazione iugoslava[14].



[modifica] L'italianizzazione fascista Per approfondire, vedi la voce Italianizzazione (fascismo).

« Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. [...] I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani »

(Benito Mussolini, discorso tenuto a Pola il 24 settembre 1920[15])



La situazione degli slavi si deteriorò con l'avvento al potere del fascismo, nel 1922. Fu gradualmente introdotta in tutta Italia una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali, che comportò l'italianizzazione di nomi e toponimi, la chiusura delle scuole slovene e croate, il divieto dell'uso della lingua straniera in pubblico, ecc. Simili politiche di assimilazione forzata erano all'epoca assai comuni, ed erano applicate, fra gli altri, anche da paesi democratici (come Francia[16] e Regno Unito). Da notare che furono adottate dalla stessa Jugoslavia[17][18][19]. Tuttavia la politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo è stata considerata particolarmente pesante, anche perché l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime[20].



L'azione del governo fascista annullò l'autonomia culturale e linguistica di cui le popolazioni slave avevano ampiamente goduto durante la dominazione asburgica e esasperò i sentimenti di inimicizia nei confronti dell'Italia.



Le società segrete irredentiste slave, preesistenti allo scoppio della Grande Guerra, si fusero in gruppi più grandi, a carattere nazionalista e comunista, come la Borba e il TIGR, che si resero responsabili di numerosi attacchi a militari, civili e infrastrutture italiane. Alcuni elementi di queste società segrete furono catturati dalla polizia italiana e condannati a morte dal tribunale speciale per terrorismo dinamitardo.



[modifica] L'invasione della Iugoslavia Per approfondire, vedi la voce Operazione 25.





La spartizione della Iugoslavia.Nell'aprile del 1941 l'Italia partecipò all'attacco dell'Asse contro la Iugoslavia. La Iugoslavia fu smembrata e parte dei suoi territori furono annessi dagli stati invasori. Col trattato di Roma l'Italia annesse una gran parte della Slovenia, la Dalmazia settentrionale e le Bocche di Cattaro. Inoltre occupò tutta la fascia costiera della ex-Iugoslavia, con un ampio entroterra.



In Slovenia fu costituita la provincia di Lubiana, dove, a fini politici ed in contrapposizione con i tedeschi, si progettò, senza successo, di instaurare un'amministrazione rispettosa delle peculiarità locali[21]. In Dalmazia fu invece instaurata una politica di italianizzazione forzata.



La Croazia fu dichiarata indipendente col nome di Stato Indipendente di Croazia, il cui governo fu affidato al partito ultranazionalista degli ustascia, con a capo Ante Pavelić.



[modifica] Il fronte iugoslavo Per approfondire, vedi le voci Provincia di Lubiana, Governatorato di Dalmazia e Resistenza iugoslava.



La situazione, in tutta la Iugoslavia, degenerò ben presto in una feroce guerriglia, che vide da un lato la resistenza contro gli eserciti invasori e quelli collaborazionisti, e dall'altro la lotta fra le diverse fazioni etniche e politiche in cui si frammentò la resistenza iugoslava. Numerosi crimini di guerra furono commessi da tutte le parti in causa.[22]



Nello Stato Indipendente di Croazia, il regime ustascia scatenò una feroce ed orrenda pulizia etnica nei confronti dei serbi, nonché di zingari ed ebrei. Contro il regime ustascia e contro gli occupanti, presero le armi i partigiani di Tito, plurietnici e comunisti, e i cetnici, monarchici e a prevalenza serba.[23]



Comunisti e cetnici perpetrarono a loro volta crimini contro la popolazione civile croata che appoggiava il regime ustascia e si combatterono reciprocamente.



Nella Provincia di Lubiana tramontò il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido. La repressione italiana fu dura e in molti casi furono commessi crimini di guerra. Furono, fra l'altro, istituiti campi di concentramento, fra i quali si ricordano quelli di Arbe e di Gonars. Anche nella Dalmazia (italiana e croata) si innescò, fin dalla fine del 1941, una spaventosa e crudele guerra civile, che raggiunse livelli di massacro dopo l'estate 1942.



A causa dell'annessione della Dalmazia costiera al Regno d'Italia, cominciarono, inoltre, a crescere le tensioni tra il regime ustascia e le forze d'occupazione italiane. Venne perciò a formarsi, a partire dal 1942, un'alleanza tattica tra le forze italiane e i vari gruppi cetnici. Gli italiani incorporarono i cetnici nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC) per combattere la resistenza titoista, provocando fortissime tensioni con il regime ustascia.



[modifica] Gli eccidi[modifica] 1943: armistizio e prime esecuzioni

4 novembre 1943: accanto alla foiba di Terli vengono ricomposti i corpi di Albina Radecchi (A), Caterina Radecchi (B), Fosca Radecchi (C) e Amalia Ardossi (D)L'8 settembre 1943 con l'armistizio tra Italia e Alleati, si verifica il collasso del Regio Esercito.



Fin dal 9 settembre le truppe tedesche assunsero il controllo di Trieste e successivamente di Pola e di Fiume, lasciando momentanemente sguarnito il resto della Venezia Giulia. I partigiani occuparono quindi buona parte della regione, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Il 13 settembre 1943, a Pisino venne proclamata unilateralmente l'annessione dell'Istria alla Croazia, da parte del Consiglio di liberazione popolare per l'Istria.[24] Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria.



Improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare.[25] A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, nella quale tuttavia apparivano anche persone estranee al partito e che non ricoprivano cariche nello stato italiano. Vennero tutti arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altre persone di etnia italiana e croata. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita.[26]



Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia, si aggirano sulle 600-800 persone. Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste sono Norma Cossetto, don Angelo Tarticchio, le tre sorelle Radecchi. Norma Cossetto ha ricevuto il riconoscimento della medaglia d'oro al valor civile.



[modifica] L'armistizio in DalmaziaIl 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato ed in altri centri dalmati entravano i partigiani. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie ed alcuni civili.



La Dalmazia fu occupata militarmente dai tedeschi, dalla 7. SS-Gebirgsdivision "Prinz Eugen". La 77ª divisione fanteria italiana Bergamo, di stanza a Spalato e precedentemente impegnata per anni proprio nella lotta antipartigiana, in quel frangente appoggiò in massima parte i partigiani e combatté in condizioni psicologiche e materiali difficilissime contro le truppe germaniche, fra le quali la sopra citata divisione Prinz Eugen, nonostante l'atteggiamento aggressivo e poco collaborativo dei partigiani titini. Dopo la capitolazione ordinata dal comandante, generale Becuzzi, molti ufficiali italiani furono passati per le armi, in quello che è noto come il massacro di Trilj. La Dalmazia fu annessa allo Stato Indipendente di Croazia. Tuttavia Zara, restò - seppur sotto il controllo tedesco - sotto la sovranità della RSI, fino alla occupazione jugoslava dell'ottobre 1944.



[modifica] L'occupazione tedesca della Venezia Giulia Per approfondire, vedi la voce Operazione Nubifragio.



Per assumere il controllo della Venezia Giulia e della provincia di Lubiana, i tedeschi lanciarono l'Operazione Nubifragio.



L'offensiva ebbe inizio nella notte del 2 ottobre 1943 e portò all'annientamento dei reparti partigiani presenti nella regione che furono costretti alla fuga verso l'interno. Nuclei della resistenza cercarono di rallentare i tedeschi con imboscate, colpi di mano e agguati. Questi reagirono colpendo la popolazione civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze, incendi di villaggi e saccheggi. L'Operazione Nubifragio si concluse il 9 ottobre con la conquista di Rovigno.



Dal 1943 al 1945 si susseguirono le repressioni nazifasciste che portarono la provincia di Gorizia ad essere la prima in Italia per numero di morti nei campi di sterminio nazisti, mentre quarta fu Fiume.[27]



[modifica] I ritrovamenti dell'autunno 1943

Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albona d'Istria negli ultimi mesi del 1943Con l'espulsione dei partigiani divenne possibile eseguire varie ispezioni nelle foibe, dove furono rinvenuti i resti di centinaia di persone. Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse le indagini da ottobre a dicembre del 1943 in Istria.



La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine "foibe" cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo (anche quando compiuti in maniera diversa). Paradossalmente, l'enfasi data ai ritrovamenti da parte della Repubblica di Salò alimentò da un lato il clima di terrore che favorì il successivo esodo, dall'altro lato la reazione negazionista con cui le sinistre respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.



[modifica] Dalmazia 1944

Veduta di Zara distrutta dai bombardamenti (Molo di Riva Nuova)Ulteriori eccidi si ebbero nel corso dell'occupazione delle città dalmate dove risiedevano comunità italiane.



Terribile fu la sorte di Zara, ridotta in rovine dai bombardamenti, che causarono la morte e la fuga della maggior parte dei suoi abitanti. La città fu infine occupata dagli Iugoslavi il 1º novembre 1944: si stima che il totale delle persone soppresse dai partigiani in pochi mesi sia di circa 180.[28]



Fra gli altri furono uccisi i fratelli Nicolò e Pietro Luxardo (industriali, produttori del celebre liquore maraschino): secondo alcune testimonianze Nicolò fu annegato in mare[29]. Quella dell'annegamento in mare legati a macigni è una pratica di cui sono state date varie testimonianze[30], tanto da divenire nell'immaginario popolare la "tipica" modalità di esecuzione delle vittime zaratine, similmente alle foibe in Venezia Giulia.



[modifica] Primavera 1945: l'occupazione della Venezia Giulia e la nuova ondata di eccidi Per approfondire, vedi la voce Massacro di Bačka.



Nella primavera del 1945 la IV Armata jugoslava, puntò verso Fiume, l'Istria e Trieste. L'obiettivo era di occupare la Venezia Giulia prima dell'arrivo degli alleati, trascurando l'occupazione delle due capitali (Zagabria e Lubiana), che vennero lasciate in mano germanica, in quanto la loro successiva assegnazione alla Jugoslavia non era minimamente in discussione. Il 20 aprile 1945 le formazioni partigiane raggiunsero i confini della Venezia Giulia. Tra il 30 aprile ed il 1º maggio le formazioni del IX Korpus sloveno occuparono l'Istria, Trieste e Gorizia.



Il nuovo regime si mosse in due direzioni. Le autorità militari avevano il mandato di ristabilire la legittimità della nuova situazione creatasi con operazioni militari di occupazione. L'OZNA, la polizia segreta jugoslava, invece, operava nella più totale autonomia. Il compito della stessa era quello di arrestare i componenti del CLN e delle altre organizzazioni antifasciste italiane nonché tutti coloro che avrebbero potuto opporsi alla futura annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, rivendicando l'appartenenza della stessa all'Italia.



A partire dal maggio del 1945, quindi, massacri si verificarono in tutta la Venezia Giulia (Trieste, Gorizia, Istria e Fiume). A Gorizia e Trieste (occupate dal 1º maggio), i massacri cessarono con l'arrivo degli alleati il 12 giugno: si riscontrò l'uccisione di diverse migliaia di persone, molte delle quali gettate vive nelle foibe.



[modifica] Gli eccidi a Trieste ed in Istria Per approfondire, vedi la voce Trieste#L'occupazione jugoslava.



I baratri venivano usati per l'occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista Jugoslavo di Tito.



Gli scritti dell'allora sindaco di Trieste, Gianni Bartoli, nonché alcuni documenti inglesi riportano che molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali riferendosi alla sola città di Trieste e alle zone limitrofe, non includendo dunque il resto della Giulia, dell'Istria (dove si è registrata la maggioranza dei casi) e della Dalmazia. In possesso di queste informazioni il Governo De Gasperi nel maggio 1945 chiese ragione a Tito di 2.500 morti e 7.500 scomparsi nella Venezia Giulia. Tito confermò l'esistenza delle foibe come occultamento di cadaveri e i governi iugoslavi successivi mai smentirono.





Beato Francesco BonifacioDi nuovo si verificarono uccisioni efferate, come quella dei democristiani Carlo Dell'Antonio e Romano Meneghello e di don Francesco Bonifacio, torturato e quindi assassinato (il suo corpo non è mai stato ritrovato); ritenuto martire "in odium fidei" dalla Chiesa, è stato beatificato nel 2008.



Tra altri politici di riferimento del CLN, si segnalano i casi di Augusto Bergera e Luigi Podestà - che restano due anni in campo di concentramento titino - e quelli del socialista Carlo Schiffrer e dell'azionista Michele Miani, che miracolosamente riescono ad aver salva la vita[31].



[modifica] Gorizia e provincia Per approfondire, vedi la voce Deportazioni di Gorizia.



Con l'arrivo dell'Armata Popolare Iugoslava anche a Gorizia iniziarono le repressioni che toccarono l'apice fra il 2 e il 20 maggio. Migliaia furono gli arresti e gli scomparsi non solo tra gli italiani, ma anche tra gli sloveni che si opponevano al regime comunista di Tito.



Fra le vittime si ricordano alcuni esponenti politici locali di riferimento del CLN: Licurgo Olivi del Partito Socialista Italiano e Augusto Sverzutti del Partito d'Azione, che non si sa ancora quando fu ucciso e se il suo cadavere fu infoibato[32].



Le autorità slovene a marzo del 2006 hanno consegnato al sindaco di Gorizia un elenco di 1.048 deportati dalla provincia di Gorizia, dei quali circa 900 non hanno fatto più ritorno. Secondo il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, questa lista sarebbe ancora grandemente incompleta.[33]



[modifica] Fiume

Lapide votiva nel cimitero di Cosala, a Fiume.Fiume fu occupata il 3 maggio dagli iugoslavi, che avviarono immediatemente un'intensa campagna di epurazione.



Particolarmente violenta fu la caccia ai superstiti del Partito Autonomista Fiumano, particolarmente forte in città, che era visto come un potenziale ostacolo all'annessione della città alla Jugoslavia. Il quotidiano comunista La Voce del Popolo scatenò una violentissima campagna di denuncia contro gli autonomisti, che vennero accomunati ai fascisti. I partigiani uccisero nelle prime ore di occupazione della città i vecchi capi del partito, dei quali una buona parte fu schiettamente antifascista. Fra questi Mario Blasich (infermo da anni, venne strangolato nel suo letto), Giuseppe Sincich (prelevato dalla sua casa e abbattuto a raffiche di mitra), Mario Skull (ucciso a colpi di pistola), Giovanni Baucer, Mario De Hajnal e Giovanni Rubinich che fu fondatore del Movimento Autonomista Liburnico.



Toccante fu la storia dell'ebreo Angelo Adam. Già deportato a Dachau e miracolosamente salvatosi, al ritorno in città venne eletto nei comitati sindacali aziendali, che fra i mesi di luglio e dicembre 1945 videro impegnate le intere maestranze cittadine, su impulso del Partito Comunista Croato. Inaspettatamente, queste elezioni videro il trionfo delle componenti autonomiste, che ottennero oltre il 70% dei seggi. In procinto di partire per Milano per incontrare i componenti del CLNAI, Angelo Adam venne arrestato, così come in immediata successione la moglie Ernesta Stefancich e il giorno dopo la figlia minorenne Zulema Adam, recatasi presso le autorità per chiedere informazioni sulla sorte dei genitori. Di nessuno dei tre si ebbero più notizie.



Tra i politici furono uccisi i senatori fiumani Icilio Bacci e Riccardo Gigante che non si erano macchiati di crimini. In anni recenti vicino alla località di Castua è stata individuata la fossa dove riposano i resti di Gigante, ma risulta difficile il loro recupero.



La persecuzione colpì anche gli esponenti dei CLN, secondo una linea ampiamente usata anche a Trieste e Gorizia. Numerosi furono nelle tre città gli arresti e le deportazioni di antifascisti, dei quali solo alcuni faranno ritorno dai campi di concentramento dopo lunghi periodi di detenzione. Ancora nel 1946 - assai dopo le esplosioni di "jacquerie" - risulteranno comminate condanne capitali contro reclusi accusati di aver fatto parte dei CLN.[34]



Il numero di italiani sicuramente uccisi dall'entrata nella città di Fiume delle truppe jugoslave (3 maggio 1945) fino al 31 dicembre 1947 è di 652, a cui va aggiunto un altro numero di vittime non esattamente identificabile per mancanza di riscontri certi.[35]



[modifica] Cause « ....già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell'autunno del 1943, si intrecciarono "giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento" della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una "pulizia etnica". »

(Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del "Giorno del ricordo". Roma, 10 febbraio 2007[36])



L'esatta qualificazione del fenomeno delle foibe è assai complessa. Dai fatti storici sopra esaminati emergono, comunque, una serie di cause remote, quali:



la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall'altra, causata dall'imporsi del concetto di nazionalità e stato nazionale nell'area;

gli opposti irredentismi, per cui i territori mistilingui della Dalmazia e dell'allora Litorale austriaco dovevano appartenere, in esclusiva, all'uno o all'altro ambito nazionale, e quindi all'uno o all'altro stato;

le conseguenze della prima guerra mondiale , con una fortissima battaglia diplomatica per la definizione dei confini fra il Regno d'Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e le conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra;

il ventennio fascista, col tentativo di assimilazione forzata delle popolazioni slave della Venezia Giulia;

la seconda guerra mondiale, che conobbe nel teatro jugoslavo-balcanico uno dei fronti più complessi e violenti[37] (si pensi solo al comportamento degli ustascia croati).

il connubio fra una visione della guerra di liberazione iugoslava non solo "nazionale", ma anche "sociale", con la componente italiana percepita anche come "classe dominatrice".

la natura totalitaria e repressiva del costituendo regime comunista iugoslavo.

Ciò premesso, il fenomeno delle foibe può essere considerato come un evento derivante da un movente politico, il cui duplice obiettivo era:[38]:



l'annessione della Venezia Giulia alla Iugoslavia: si volevano pertanto neutralizzare quelli (essenzialmente italiani) che si opponevano all'annessione di queste terre alla Iugoslavia.

l'avvento di un governo comunista in Iugoslavia: si volevano pertanto neutralizzare reali o potenziali oppositori del costituendo regime comunista.

Per quanto riguarda un supposto aspetto "vendicativo", essendo i fascisti e i loro fiancheggiatori in gran parte italiani (sia pure non in numero superiore rispetto ad altre regioni italiane), ed opponendosi essenzialmente gli italiani all'annessione alla Iugoslavia, soprattutto a livello locale fu frequente l'equazione italiano = fascista[39] Il conseguente (riuscito) tentativo di disarticolare in tutti i modi il precedente ordine sociale e religioso, fu interpretato dagli istriani di lingua italiana come un inusitato attacco alla propria etnia. Questo aspetto provocò, localmente, episodi di "jacquerie" (insurrezioni spontanee dei ceti popolari), in cui molti colsero anche l'opportunità di portare avanti vendette personali o compiere rapine eliminando i testimoni. Tale jacquerie si rivolse non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali.[40] Gli episodi di jacquerie si verificarono prevalentemente nel corso degli eccidi del settembre-ottobre del 1943, avvenuti in un contesto in cui vennero a mancare i poteri costituiti[senza fonte].



Pertanto gli eccidi furono in massima parte, il risultato di una "violenza di stato"[41], che fu uno strumento di repressione politica ed etnica[42], in vista dell'annessione alla Iugoslavia di tutta la Venezia Giulia (incluse Trieste e Gorizia)[43] e per eliminare gli oppositori (reali o presunti) del costituendo regime comunista. In vista di questi due obiettivi era infatti necessario reprimere le classi dirigenti italiane (compresi antifascisti e resistenti), per eliminare ogni forma di resistenza organizzata. Questo aspetto era particolarmente importante a Gorizia e Trieste, della cui annessione gli Iugoslavi non erano (a ragione) certi. Tito, pertanto, fece il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. Neutralizzati i vertici italiani, tentò di far credere che gli iugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione: la composizione etnica sarebbe, infatti, stata un fattore decisivo nelle conferenze che sarebbero seguite nel dopoguerra e, per questo motivo, la riduzione della popolazione italiana sarebbe stata essenziale.[44]



Su questo dibattuto problema, gli storici italiani e sloveni (ma non quelli croati) hanno raggiunto conclusioni concordi, laddove affermano:



« Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani. »

(Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Periodo 1941-1945", Paragrafo 11, Capodistria, 2000)



[modifica] Vittime[modifica] Tipologia delle vittimeTra i caduti figurano non solo personalità legate al Partito nazionale fascista, ma anche ufficiali e funzionari pubblici, parte dell’alta dirigenza italiana contraria sia al comunismo, sia al fascismo, tra cui compaiono esponenti di organizzazioni partigiane o anti-fasciste, sloveni e croati anti-comunisti, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini.



[modifica] Modalità delle esecuzioniNelle foibe sono stati gettati cadaveri sia di militari che di civili. In alcuni casi, com'è stato possibile documentare, furono infoibate persone non colpite o solo ferite[45].



Sebbene quest'ultima modalità di esecuzione fosse, come già detto, solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito[46], nella cultura popolare divenne il metodo di esecuzione per eccellenza ed un simbolo del massacro.



In realtà la maggior parte delle vittime, date per infoibate, sono state inviate nei campi di concentramento jugoslavi dove molte furono uccise o morirono di stenti o malattia.



[modifica] Quantificazione delle vittimeNel dopoguerra e nei decenni immediatamente successivi non furono mai effettuate stime scientifiche del numero delle vittime, che venivano usualmente indicate in 15.000[47] (e talvolta aumentate fino a 30.000).[48] Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dagli anni novanta. Una quantificazione precisa è impossibile a causa di una generale mancanza di documenti. Il governo jugoslavo (e successivamente quello croato) non ha inoltre mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero di decessi. Alcuni commentatori ritengono inoltre che una parte della documentazione sia tuttora secretata negli archivi, in particolare dell'ex Partito comunista italiano[49]. Gli studi effettuati recentemente valutano il numero totale delle vittime (comprensive quindi di quelle morte durante la prigionia o la deportazione) come compreso tra poco meno di 5.000 e 11.000.[50][51] Di questi solo alcune centinaia furono gli "infoibati" veri e propri, ma nell'uso comune anche gli uccisi in altre circostanze legate all'avanzata delle forze jugoslave lungo il confine orientale italiano vengono comunque considerati vittime o martiri "delle foibe".



[modifica] TestimonianzeFurono poche le persone che riuscirono a salvarsi risalendo dalle foibe comunque tra questi Graziano Udovisi, Giovanni Radeticchio e Vittorio Corsi hanno raccontato la loro tragica esperienza a storici e/o emittenti televisive.[52]



« dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell'alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri "facciamo presto, perché si parte subito". Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 k. Fummo sospinti verso l'orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, c'impose di seguirne l'esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il masso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 m. e una profondità di 15 sino la superficie dell'acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai fondo e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole "un'altra volta li butteremo di qua, è più comodo", pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott'acqua schiacciandomi con la pressione dell'aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo. »

(dichiarazione di Radeticchio[53])



Questa testimonianza, della primavera del 1945, fu pubblicata la prima volta il 26 gennaio 1946 sul periodico della Democrazia Cristiana triestina La Prora e poi fu riportata integralmente nell'opuscolo Foibe, la tragedia dell'Istria, edito dal CLN dell'Istria; è stata dopo spesso citata dalla pubblicistica del dopoguerra.[54]



Anche questa testimonianza non è passata indenne di fronte alle polemiche politico-storiografiche: recentemente Pol Vice, un saggista di ispirazione marxista[55], ha pubblicato un saggio critico all'interno del quale sottopone il testo di Udovisi ad una serrata critica, giungendo ad affermare che siamo in presenza di un falso testimone[56].



[modifica] Vittime di nazionalità slovena e croataNegli eccidi furono coinvolti cittadini italiani (o ex italiani) di nazionalità slovena e croata. Tali uccisioni ebbero una matrice esclusivamente politica, rimanendo esclusa quella etnica, intendendo il costituendo regime comunista eliminare le forme di opposizione. Questi eccidi, quindi, nel dibattito italiano non sono di solito considerati parte degli eccidi delle foibe[57], termine che si riferisce alle sole vittime di nazionalità italiana.



Tra gli sloveni uccisi vanno ricordati: Ivo Bric di Montespino (Dornberk), antifascista cattolico ucciso con la famiglia il 2 luglio 1943, Vera Lesten di Merna, poetessa e antifascista cattolica, uccisa nel novembre del 1943, la famiglia Brecelj di Aidussina (il padre Anton, le figlie Marica e Angela e il figlio Martin) uccisa nel luglio del 1944. Tra i sacerdoti uccisi (e spesso infoibati) dai comunisti vanno ricordati: don Alojzij Obit del Collio (scomparso nel gennaio 1944), don Lado Piščanc e don Ludvik Sluga di Circhina (uccisi con altri 13 parrocchiani sloveni nel febbraio del 1944), don Anton Pisk di Tolmino (scomparso e probabilmente infoibato nell'ottobre 1944), don Filip Terčelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta il 7 gennaio 1946 e successivamente scomparso, e don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946. Un caso a parte rappresenta la sorte di Andrej Uršič di Caporetto, giornalista antifascista e anticomunista sloveno, ex membro del TIGR e co-fondatore dell'Unione Democratica Slovena in Italia, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel 31 agosto del 1947, sottoposto a sevizie, probabilmente ucciso nell'autunno del 1948, e il suo cadavere gettato in una delle foibe della Selva di Tarnova.



[modifica] La memoria delle foibe fra oblio, strumentalizzazioni e ricerca storica[modifica] L'oblio del dopoguerra « ... va ricordato l'imperdonabile orrore contro l'umanità costituito dalle foibe (...) e va ricordata (...) la "congiura del silenzio", "la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell'oblio". Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell'aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell'averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali. »

(Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del "Giorno del ricordo". Roma, 10 febbraio 2007)



La vicenda nel dopoguerra è stata a lungo trascurata per i convergenti interessi di governo e opposizione.[58]



Secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio fu causato da tre motivi: prima di tutto vi fu un silenzio internazionale, provocato dalla rottura tra Tito e Stalin avvenuta nel 1948, che spinse tutto il blocco occidentale a stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia, in funzione antisovietica (si era agli inizi della guerra fredda). Vi fu inoltre il silenzio del PCI che non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale . Vi fu infine un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella seconda guerra mondiale.



Oltre a questo non si voleva inoltre riaprire il problema dei molti militari che commisero in Jugoslavia reati di guerra per i quali non furono mai perseguiti, nonostante le iniziali richieste del governo jugoslavo[59].



La memoria degli avvenimenti rimase per lo più ristretta nell'ambito degli esuli, di qualche intellettuale anticonformista e di commemorazioni locali. Solo una parte della destra ha sostenuto le ragioni delle vittime, sia pure strumentalizzandole in funzione anticomunista ed esagerando il loro numero.



Ciò non toglie che in opere storiche, l'argomento fosse dibattuto: ad esempio nel 1980, Arrigo Petacco - noto giornalista e saggista - illustrò la tragica realtà di questo massacro. Il suo racconto, pur all'interno di un'opera più ampia e con molte incertezze, prudenze ed omissioni, offriva un quadro sufficientemente completo, senza sottovalutare entità e ferocia delle stragi.



[modifica] Il riemergere della vicenda negli anni '90Tuttavia, fu solo a partire dai primi anni '90, a seguito della fine della guerra fredda, che il tema delle foibe venne pienamente in luce e iniziò ad essere trattato dai media, coinvolgendo cultura, società e politica. Anche su iniziativa degli ex comunisti[60], si è fatta luce su questi episodi, che hanno cominciato ad essere ufficialmente ricordati.



Dal 30 marzo 2004 la giornata del 10 febbraio è dedicata alla commemorazione dei morti e dei profughi italiani. La data del 10 febbraio ricorda il trattato di Parigi siglato nel 1947 che assegnò alla Jugoslavia il territorio occupato nel corso della guerra dall'armata di Tito.



In tale occasione fu trasmessa da Rai Uno la controversa "fiction" Il cuore nel pozzo prodotta dalla RAI e liberamente ispirata alle stragi delle foibe. La trasmissione ebbe un vasta audience[61] e suscitò numerose polemiche per l'approssimazione con cui veniva trattato il contesto storico della vicenda[62]



[modifica] Processi a criminali di guerraI vari governi italiani succedutesi negli anni mai consegnarono i responsabili dei crimini nei Balcani, sia a causa della così detta "amnistia Togliatti"[63] intervenuta il 22 giugno 1946, sia perché il 18 settembre 1953 il governo Pella approvò l'indulto e l'amnistia proposta dal guardasigilli Antonio Azara per i tutti i reati politici commessi entro il 18 giugno 1948,[64] a cui si aggiunse quella del 4 giugno 1966.[65] All'epoca la sola città di Belgrado (capitale dell'allora Jugoslavia) chiese di imputare oltre 700 presunti criminali di guerra italiani[66] e i generali Mario Roatta, Vittorio Ambrosio e Mario Robotti, che non furono mai consegnati nonostante gli accordi internazionali prevedessero la loro estradizione.[67]



Nel 1992 è stato istituito un procedimento giudiziario in Italia contro alcuni dei responsabili dei massacri ancora in vita.[68] Tali inchieste furono giustificate dal fatto che all'epoca la Venezia Giulia era ancora ufficialmente sotto sovranità italiana; inoltre i crimini di guerra non sono soggetti a prescrizione. Partite dalla denuncia di Nidia Cernecca[69], figlia di un infoibato, videro come principali imputati i croati Oscar Piskulic e Ivan Motika. L'inchiesta fu istituita dal pubblico ministero Giuseppe Pittitto. Nel 1997 diversi parlamentari sollecitarono il governo affinché avanzasse richiesta di estradizione per alcuni degli imputati.[70] Il procedimento si è concluso con un nulla di fatto: nel 2004 fu infatti negata la competenza territoriale dei magistrati italiani.



Anche in questa occasione fiorirono le polemiche: fra le altre cose Pittitto fu accusato di volere imbastire un "processo alla resistenza".[71]



[modifica] Le tesi militantiLa ricerca storica ha ormai pubblicato molteplici studi sugli avvenimenti, molte opere divulgative sono, inoltre, state pubblicate. Nell'opinione pubblica, tuttavia, persiste una forte enfasi, di origine ideologica, sulle responsabilità che comunismo e fascismo hanno avuto nelle foibe[72].



[modifica] Comunismo e fascismo: il dibattito sulle responsabilitàIn particolare, in alcuni ambienti della destra si afferma che le foibe sono state semplicemente un crimine del comunismo (spregiativamente chiamato "barbarie slavocomunista"), un genocidio di cittadini inermi che avevano la "sola colpa di essere italiani"[73], in preparazione alla successiva pulizia etnica. Il numero delle vittime viene talvolta esagerato.(senza fonte)



D'altra parte, in alcuni ambienti della sinistra, è diffuso un atteggiamento "giustificazionista" e si presentano gli eccidi come una "reazione" alla brutalità fascista.[74][75][76] È diffuso, inoltre, un atteggiamento "riduzionista"[77] che contesta il numero delle vittime delle foibe correggendolo al ribasso e che sostiene che gli eccidi abbiano coinvolto essenzialmente esponenti fascisti, sia militari che civili, responsabili di repressioni e di crimini di guerra.[78]



Si è visto sopra come le cause degli eccidi siano, in realtà, molto più complesse rispetto a queste semplificazioni.



[modifica] Responsabilità del regime comunista iugoslavo

Josip Broz Tito « ... le "foibe" (...) sono state una variante locale di un processo generale che ha coinvolto tutti i territori i cui si realizzò la presa del potere da parte del movimento partigiano comunista jugoslavo ... »

(Raoul Pupo, "Le stragi del secondo dopoguerra nei territori amministrati dall'esercito partigiano jugoslavo")



Gli eccidi, come detto, avevano anche l'obiettivo di eliminare i possibili oppositori del costituendo regime comunista iugoslavo[79] e furono uno dei tanti eccidi che caratterizzarono la sua ascesa al potere[80], fra questi è rimasto tristemente celebre il massacro di Bleiburg. Repressioni di tale portata furono consentite dalle caratteristiche dittatoriali del regime comunista di Tito. Simili repressioni furono, inoltre, caratteristiche dell'ascesa al potere di gran parte dei regimi comunisti del periodo (che all'epoca conicidevano con lo stalinisimo), fatto che ha spesso portato a presentare le foibe 'tour court' come un "crimine del comunismo".



[modifica] La posizione del Partito Comunista Italiano Per approfondire, vedi la voce Treno della vergogna.





Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano. Le sue posizioni sulla questione giuliano-dalmata sono controverse. « Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.[81] »

(Da Profughi di Piero Montagnani su "L'Unità" - Organo del Partito Comunista Italiano - Edizione dell'Italia Settentrionale, Anno XXIII, N. 284, Sabato 30 novembre 1946)



Il P.C.I. non ebbe responsabilità dirette negli eccidi. Tuttavia, già nel corso del conflitto, aveva acconsentito a lasciare la Venezia Giulia e il Friuli orientale sotto il controllo militare dei partigiani di Tito, avallando così la successiva occupazione jugoslava. Fu per questo motivo che aveva ordinato ai propri partigiani operanti nella regione, di porsi sotto comando jugoslavo (fu in questo contesto che maturò il celebre eccidio di Porzûs).[82]



Terminato il conflitto molti militanti[senza fonte] comunisti italiani collaborarono con il governo jugoslavo e molti ebbero un ruolo attivo nelle repressioni. Va detto che le scelte dei comunisti italiani (spesso tacciati di "tradimento") furono coerenti al loro internazionalismo, secondo il quale l'affermarsi del comunismo era un valore moralmente superiore a quello di patria e di nazione. Coerenti a questo ideale giunsero anche ad auspicare la formazione di una settima repubblica federativa jugoslava, di carattere italiano, comprendente Trieste, Monfalcone e il Friuli orientale. Negli anni successivi furono tuttavia molti gli ex partigiani e i militanti a prendere la via dell'esodo, come conseguenza delle politiche nazionaliste e repressive del comunismo jugoslavo.[83][84], oltre che per la disputa che opponeva Tito a Stalin, e che vedeva i comunisti italiani schierati su posizioni rigidamente staliniane.



Negli anni successivi il P.C.I. contribuì a dare, all'opinione pubblica italiana, una visione alterata degli avvenimenti, volta a minimizzare e a giustificare le azioni dei comunisti jugoslavi.[85] Di questo atteggiamento ne fecero le spese i profughi, ai quali fu ingiustamente cucita addosso l'odiosa nomea di "fascisti in fuga"[86]).



A tutt'oggi, come si dice avanti, persiste in taluni ambienti comunisti e post-comunisti, in particolar modo quelli più legati all'epopea partigiana un atteggiamento che tende a minimizzare e a giustificare gli eccidi.[87][88][89][90][91]



[modifica] Negazionismo sulle foibe Per approfondire, vedi la voce Negazionismo delle Foibe.



In un suo libro del 1997, la giornalista triestina Claudia Cernigoi, ha definito tutto il processo di riflessione storiografica sulle foibe sviluppatosi in Italia nel corso degli anni '90 come frutto diretto della "propaganda nazifascista", e teso a riproporre un "neoirredentismo" italiano[92]. Uno degli scopi dichiarati dall'autrice è quello di "liberare finalmente anche gli Sloveni e la sinistra tutta da quel senso di colpa che si portano dietro come "infoibatori""[93]. In questo libro, il numero degli infoibati nella provincia di Trieste per opera degli iugoslavi venne determinato in 517[94], oltre a ciò - per l'autrice - "non vi furono massacri indiscriminati: della maggior parte degli arrestati si sa che erano militari e comunque collaboratori del nazifascismo"[95]. Allo stesso tempo, con riferimento alle onoranze concesse negli anni più recenti agli infoibati, la Cernigoi affermava che "visti i ruoli impersonati dalla maggior parte degli "infoibati", personalmente ci rifiutiamo di onorarli. Si può provare umana pietà nei confronti dei morti, ma da qui ad onorare chi tradiva, spiava, torturava, uccideva, ce ne corre"[96].



Il testo provocò moltissime polemiche, tanto che un ricercatore vicino alle associazioni degli esuli istriani - Giorgio Rustia - pubblicò nel 2000 un saggio fortemente critico delle metodiche di studio della Cernigoi[97]. Rustia contestò alla radice l'intera impostazione del saggio della Cernigoi, fra l'altro individuando all'incirca altri duecento nomi di persone soppresse dagli iugoslavi a Trieste e nella provincia[98] e ricostruendo la storia personale di alcuni degli infoibati, dalla Cernigoi accusati di gravi reati che secondo Rustia non sono stati commessi[99].



In uno studio del 2003, gli storici Raoul Pupo e Roberto Spazzali hanno pertanto inserito Claudia Cernigoi fra i "negazionisti o riduzionisti" delle foibe[100], ricalcando quindi - almeno in parte - l'analoga definizione riservata ai negazionisti dell'Olocausto. Claudia Cernigoi ha reagito molto duramente a tale accusa, con due articoli apparsi sulla rivista on-line La Nuova Alabarda - da lei diretta - a marzo del 2003[101] e a febbraio del 2007[102], nei quali affermò di ritenere "inesatta e fuorviante, oltreché offensiva, questa definizione" e ribadendo che - a suo dire - sulle foibe sarebbe stata artatamente creata una "mitologia (...) a scopi politici", "a scopo anticomunista, antipartigiano e soprattutto in funzione razzista contro i popoli della ex Jugoslavia (...)", sperando nel contempo che in Italia "non siamo già arrivati al fascismo completo".



In un saggio del 2009 da lui curato[103], lo storico italiano di etnia slovena Jože Pirjevec per primo nel panorama degli storici accademici[104] ha utilizzato come fonte gli studi della Cernigoi. Anche questo saggio è stato fortemente criticato da molti storici e giornalisti italiani, fra i quali Paolo Mieli[105] (per il quale Pirjevec ha scatenato "polemiche di fuoco"), Roberto Spazzali[106], Raoul Pupo e Giuseppe Parlato[107].



[modifica] Tesi sul primo utilizzo delle foibe

La Foiba di Pisino, dove si inabissa l'omonimo torrentePiù volte, a partire dagli anni '80, sono stati ricordati alcuni scritti del gerarca fascista Giuseppe Cobolli Gigli, che in una guida turistica del 1915 aveva riportato il testo di una filastrocca popolare[108]: «A Pola xé l'Arena/ la Foiba xé a Pisin:/ che i buta zò in quel fondo/ chi gà un certo morbin»[109]. Otto anni dopo, Cobolli riprendeva la tematica in una articolo sul periodico del PNF "Gerarchia"[110]:«La musa istriana ha chiamato Foiba[111] degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria».



Sulla base di questi scritti si è affermato che l'utilizzo delle foibe, per eliminare le vittime di stragi, fosse di ideazione fascista. Tuttavia, secondo lo storico Elio Apih, il nesso fra le foibe e gli scritti di Cobolli è suggestivo e non credibile, e tali scritti, anche se definibili come "cattiva letteratura" e testimonianza di una "ostilità scherzosa", non possono essere certo presentati, retrospettivamente, come un antefatto alle stragi[112]. Nel 2003, il giornalista e scrittore Giacomo Scotti ha ripreso la tesi[113] affermando, sulla base degli srcritti di Cobolli, che le foibe sarebbero state un'"invenzione fascista"[114]. A riprova di un effettivo utilizzo delle foibe da parte fascista, Scotti cita una lettera, a firma di Raffaello Camerini, pubblicata sul quotidiano triestino Il Piccolo nel 2001, dove si riferisce di supposti eccidi compiuti dai fascisti e dell'occultamento dei cadaveri delle vittime in alcune foibe. Le affermazioni contenute nella lettera non hanno però trovato riscontri specifici presentanto contraddizione e incongurenze, pertanto la sua autenticità viene posta in dubbio[115].



La tesi di Scotti, inoltre, non è stata citata in nessuna opera storiografica. Ad esempio, lo storico Elio Apih, che pure ha effettuato un’analisi dei possibili precursori delle Foibe, non reputa neppure di menzionarla[116].



Lo stesso Apih ricorda che l'utilizzo delle foibe quale fossa comune, non costituisce una caratteristica originale degli eccidi giuliani. In gran parte delle stragi che caratterizzarono la seconda guerra mondiale difatti, insorse la necessità pratica di seppellire e/o occultare in fretta e con poca fatica le vittime. Le foibe furono utilizzate semplicemente perché era ciò che la Venezia Giulia offriva allo scopo, a fianco, peraltro, di miniere abbandonate e di cave[117].



Lo storico Raoul Pupo è sostanzialmente in linea con quest'ultima affermazione laddove parla di una tecnica di omicidio "diffusa in tutta l'area Iugoslava"[118].



Le tesi di Scotti, malgrado fossero di origine prettamente giornalistica (e quindi non accettate dalla storiografia), hanno avuto una certa diffusione, venendo riportate anche da un intellettuale come Predrag Matvejević[119] e in molti ambienti vicini alla resistenza (soprattutto a quella comunista) come l'A.N.P.I.[120] e in quotidiani di ispirazione comunista[121]. La tesi è inoltre popolare in svariate associazioni neo e post comuniste.



Nel già citato saggio del 2009, curato dallo storico italiano (di etnia slovena) Jože Pirjevec, è stata utilizzata la testimonianza di Camerini[122], primo e unico caso nell'ambiente della ricerca storica. Come detto tale saggio è stato fortemente criticato da molti storici e giornalisti.



Un'altra ipotesi, che attribuisce al comandante di polizia della R.S.I. Gaetano Collotti l'utilizzo di foibe per eliminare i cadaveri di perseguitati politici[123], è stata proposta nel già citato testo "Operazione foibe a Trieste", della giornalista Claudia Cernigoi.



[modifica] Il punto di vista sloveno e croatoLa Slovenia ha ufficialmente adottato la relazione di una commissione congiunta italo-slovena che descrive i rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956.





Il presidente della Repubblica di Croazia Stipe Mesic; pur condannandole ha definito le foibe una "vendetta"Le autorità italiane, pur avendo sostenuto l'operato della commissione, non hanno adottato la relazione, ritenendo inopportuno conferire ad essa uno status di ufficialità che non è compatibile con il principio della libera ricerca[senza fonte].



Il Governo italiano nel 2007, rispondendo ad una interrogazione parlamentare del deputato Cardano, ha precisato che, godendo già la relazione della Commissione bilaterale dello Status di ufficialità, ed essendo passati ormai ben 7 anni dalla sua prima pubblicazione sulla stampa e dal riconoscimento ufficiale del governo sloveno, non ritiene di pubblicarla perché gode già dello Status di ufficialità.[124] In Croazia sono diffuse opinioni di carattere riduzionista e si ritiene che i massacri siano stati solo una limitata reazione alle angherie del regime fascista, tanto nel '43 quanto nel '45.[senza fonte]



[modifica] Il ricordo e la memoriaCon la Legge n. 92 del 30 marzo 2004 si è istituito nella giornata del 10 febbraio di ogni anno il "giorno del ricordo", in memoria delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata



[modifica] Elenco di foibeIn questo elenco sono segnalate foibe e cave nelle quali son stati trovati resti umani o che secondo le testimonianze conterrebbero dei resti umani, dei quali solo una minima parte è stata recuperata[125].



Foiba di Basovizza (Trieste) monumento nazionale (testimonianze di centinaia di infoibamenti)

Foiba di Monrupino (Trieste) monumento nazionale (testimonianze di centinaia di infoibamenti)



Mappa delle principali foibeFoiba di Barbana

Foiba di Beca

Foiba Bertarelli (Pinguente)

Foiba di Brestovizza

Foiba di Campagna (Trieste) (assieme alle foibe di Opicina e Corgnale, circa duecento infoibati, i cui corpi non sono stati recuperati)

Foibe di Capodistria (una commissione slovena fece ispezionare le ottantun cavità con entrata verticale che circondano la città: in diciannove di esse sono stati trovati resti umani. Recuperati cinquantacinque corpi, secondo le testimonianze nella zona furono eliminati centoventi italiani e sloveni di San Dorligo della Valle)

Foiba di Casserova (vicino a Fiume: tedeschi, sloveni e italiani gettati dentro. Estremamente difficile il recupero)

Foibe di Castelnuovo d'Istria

Foiba di Cernizza (due salme recuperate nel 1943)

Foiba di Cernovizza (Pisino) (testimonianze di circa cento uccisioni)

Foiba di Cocevie

Foiba di Corgnale (assieme alle foibe di Campagna e Opicina, circa duecento infoibati, i cui corpi non sono stati recuperati)

Foiba di Cregli (otto corpi recuperati nel 1943)

Foiba di Drenchia (presenza di cadaveri della divisione partigiana Osoppo, secondo Diego De Castro)

Cava di bauxite di Gallignana (ventitré corpi recuperati nel mese di ottobre del 1943)

Foiba di Gargaro o Podgomila (Gorizia) (circa ottanta morti, secondo le testimonianze)

Foiba di Gimino

Foiba di Gropada (trentaquattro persone eliminate con colpo alla nuca il 12 maggio 1945. Corpi non recuperati)

Foiba di Iadruichi

Foiba di Jurani

Cava di bauxite di Lindaro

Foiba di Obrovo (Fiume)

Foiba di Odolina

Foiba di Opicina (assieme alle foibe di Campagna e Corgnale, circa duecento infoibati, i cui corpi non sono stati recuperati)

Foiba di Orle (un numero imprecisato di corpi recuperati nel 1946)

Foiba di Podubbo (cinque corpi individuati e non recuperati)

Foiba di Pucicchi (undici corpi recuperati nel 1943)

Foiba di Raspo

Foiba di Rozzo

Foiba di San Lorenzo di Basovizza

Foiba di San Salvaro

Foiba di Scadaicina

Abisso di Semez (individuati i resti di ottanta/cento persone. Corpi non recuperati)

Foiba di Semi (Istria)

Abisso di Semich (un centinaio di corpi individuati ma non recuperati)

Foiba di Sepec (Rozzo)

Foiba di Sesana (un numero imprecisato di corpi recuperati nel 1946)

Foiba di Terli (ventisei corpi recuperati nel 1943)

Foiba di Treghelizza (due corpi recuperati nel 1943)

Foiba di Vescovado (sei corpi recuperati)

Foiba di Vifia Orizi (testimonianze di circa duecento persone eliminate)

Foiba di Villa Surani (ventisei corpi recuperati nel 1943)

Foiba di Vines (cinquantaquattro corpi recuperati nel mese di ottobre 1943)

Foiba di Zavni (Selva di Tarnova) (secondo le testimonianze, vi sono stati gettati i corpi dei Carabinieri di Gorizia, oltre che di centinaia di sloveni oppositori di Tito)

[modifica] Note1.^ Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria, Mondadori, Milano, 2003, ISBN 88-0448978-2, pag. 4

2.^ Gli eccidi compiuti nel 1943, avvenuti in un contesto di anarchia, possono essere solo in parte imputati ai partigiani iugoslavi, al contrario di quelli avvenuti successivamente.

3.^ Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996. Consultato il 13 gennaio 2009 «È noto infatti che la maggior parte delle vittime non finì i suoi giorni sul fondo delle cavità carsiche, ma incontrò la morte lungo la strada verso la deportazione, ovvero nelle carceri o nei campi di concentramento jugoslavi.»

4.^ Raoul Pupo, Roberto Spazzali - Foibe, ed Bruno Mondadori, 2003, ISBN 9788842490159; pag. 1 «E' questo un uso del termine [NdR: "foibe"] consolidatosi ormai, (...), anche in quello [NdR: linguaggio] storiografico, (...) purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterarale.»; pag. 3 «solo una parte degli omicidi venne perpetrata sull'orlo di una foiba (...) la maggior parte delle vittime perì nelle carceri, durante le marcie di trasferimento o nei campi di prigionia ... nella memoria collettiva "infoibati" sono stati considerati tutti gli uccisi...»

5.^ Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996. Consultato il 22 giugno 2010«...dietro l'apparente caoticità delle situazioni e degli interventi sembra possibile discernere con una certa chiarezza le spinte fondamentali dell'onda di violenza politica che spazza la regione, fino a ricostruire le linee essenziali di una proposta interpretativa generale, che certo andrà vagliata ed integrata alla luce dei nuovi apporti documentari, ma i cui connotati di fondo appaiono già delineati in maniera sufficientemente nitida.»

6.^ Raoul Pupo, Roberto Spazzali - Foibe, ed Bruno Mondadori, 2003, ISBN 9788842490159, p. 110, «A tutt’oggi, nonostante esse [N.d.R.: le tesi militanti] abbiano dimostrato tutta la loro fragilità sul piano scientifico, continuano a essere largamente diffuse, anche perché si prestano ad un uso politico che non è mai venuto meno…»

7.^ Raoul Pupo, Roberto Spazzali - Foibe, ed Bruno Mondadori, 2003, ISBN 9788842490159,pag .218, «Il forzato abbandono da parte degli italiani dell'Istria,di Fiume e di Zara costituisce infatti un aspetto particolare ed emblematico di un fenomeno più generale, che travolse nel vecchio continente milioni di individui, legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori nazionalmente misti, che distrusse in larga misure le realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in buona parte dell'Europa centrale.»

8.^ "L'Adriatico orientale e la sterile ricerca delle nazionalità delle persone" di Kristijan Knez; La Voce del Popolo (quotidiano di Fiume) del 2/10/2002. Consultato il 10 luglio 2009 «... è privo di significato parlare di sloveni, croati e italiani lungo l'Adriatico orientale almeno sino al XIX secolo. Poiché il termine nazionalità è improponibile per un lungo periodo, è più corretto parlare di aree culturali e linguistiche, perciò possiamo parlare di dalmati romanzi, dalmati slavi, di istriani romanzi e slavi.»

9.^ a b c Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Capitolo 1980-1918", Capodistria, 2000

10.^ Raimondo Deranez, Particolari del martirio della Dalmazia, Stab.Tipografico dell'ORDINE, Ancona, 1919

11.^ Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Capitolo 1914-1941", Capodistria, 2000

12.^ Cartoline storiche di Istria, Quarnaro e Dalmazia (contiene un commento critico del testo citato). Consultato il 10 luglio 2009

13.^ Si vedano la voce Trattato di Londra e il testo integrale del trattato su Wikisource

14.^ Si vedano, ad es., le voci Incidenti di Spalato e Domenica di sangue di Marburgo.

15.^ Storia d'Italia nel periodo fascista Di Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira; Pubblicato da G. Einaudi, 1956

16.^ Fabio Ratto Trabucco, Il regime linguistico e la tutela delle minoranze in Francia, su "Il politico (Rivista italiana di scienze politiche)", Anno 2005, Volume 70)

17.^ Sull'assimilazione della minoranza tedesca in Slovenia si veda: Harald Heppner (Hrsg.): Slowenen und Deutsche im gemeinsamen Raum: neue Forschungen zu einem komplexen Thema; Tagung der Südostdeutschen Historischen Kommission (Maribor), September 2001; Oldenbourg, München 2002.[1]

18.^ Sito sui tedeschi del Gottschee (Slovenia).

19.^ Sulle politiche di assimilazione cui furono soggetti gli ungheresi della Vojvodina, si veda, ad esempio: Károly Szilágyi, Good Neighbors or Bad Neighbors? Hungarians and Serbs during the centuries, Budapest 1999.[2]

20.^ Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena; Periodo 1918 - 1941. Consultato il 1 settembre 2010

21.^ Regio decreto-legge del 3 maggio 1941, n. 291 (istituzione della Provincia di Lubiana: "ART. 2- Con decreti reali (...) saranno stabiliti gli ordinamenti della provincia di Lubiana, la quale, avendo una popolazione compattamente slovena, avrà un ordinamento autonomo con riguardo alle caratteristiche etniche della popolazione, alla posizione geografica del territorio e alle speciali esigenze locali"

22.^ Diari di guerra: Il diario di Renzo Pagliani, bersagliere nel battaglione "Zara". digilander.libero.it. URL consultato il 10 novembre 2009.

23.^ L’Italia in guerra e il Governatorato di Dalmazia. Centro Di Documentazione Della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata, 2007. URL consultato il 10 novembre 2009.

24.^ Galliano Fogar. Le foibe: Istria, settembre-ottobre 1943, «Patria indipendente», 27 febbraio 2005.

25.^ Cfr. G. La Perna, Pola-Istria-Fiume 1943-1945, Mursia

26.^ M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, Il Mulino, 2007, p. 244

27.^ I dati si riferiscono all'insieme dei detenuti politici ed ebrei. Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia, Il libro dei deportati, vol 1, tomo 3, p. 2533. ISBN 9788842542285

28.^ Sul tema, ed in particolare sulla morte di Niccolò e Pietro Luxardo, si veda Nicolò Luxardo De Franchi, Dietro gli scogli di Zara, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1999. ISBN 8886928246

29.^ La Luxardo e la Romagna. La Voce di Rimini, 14-06-2004. URL consultato il 16-10-2009.

30.^ Padre Flaminio Rocchi. Zara, un sestiere veneziano in L'esodo dei 350 mila giuliani, fiumani e dalmati. URL consultato il 16-09-2009.

31.^ Paolo Mieli, Trieste, la guerra di Tito contro gli antifascisti - Corriere della Sera (6 aprile 2010) pagina 036/037.

32.^ Articolo de Il Piccolo

33.^ La Repubblica, 09 marzo 2006 Quei 1048 nomi riemersi dalle foibe di Paolo Rumiz;I 1.048 deportati da Gorizia (raccolta di articoli sui deportati goriziani), Altri articoli sul tema:[3][4][5]

34.^ Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996. Consultato il 5 marzo 2009

35.^ Società di Studi Fiumani-Roma, Hrvatski Institut za Povijest-Zagreb Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947)[6], Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione Generale per gli Archivi, Roma 2002. ISBN 88-7125-239-X.

Nello studio per ogni vittima individuata nominativamente, sono stati indicati tutti i dati personali conosciuti (nome, cognome, data di nascita, ultimo indirizzo conosciuto ecc.), la data e la causa di morte. Lo studio è ritenuto non esaustivo dagli stessi autori che affermano che lo stesso è da considerarsi "una buona base di partenza per quanti in futuro vorranno cimentarsi in questa difficile problematica", dato che "nessuna ricerca storica di carattere complesso come questa ha mai dato finora una risposta chiara e definitiva" (p. 149). Le tabelle riassuntive sono alla pag. 206.

36.^ Presidenza della Repubblica, Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del "Giorno del ricorso" Quirinale, 10 febbraio 2007 [7]

37.^ Raoul Pupo "Le stragi del secondo dopoguerra nei territori amministrati dall'esercito partigiano jugoslavo". consultato il 11 gennaio 2009 «Quella combattuta sui campi di battaglia della Jugoslavia non è stata soltanto una guerra di liberazione, ma anche una terribile guerra civile, in cui – dalle prime stragi ustaša del 1941 in poi – determinazione e orrore hanno sostituito la pietà. Per i prigionieri slavi quindi non c’è scampo: quelli caduti nelle mani dei partigiani vengono fucilati, ma anche quelli che sono riusciti a consegnarsi agli alleati, non per questo hanno trovato la salvezza.»

38.^ Elio Apih, "Le foibe giuliane", Libreria Editrice Goriziana, 2010, ISBN 9788861020788; p.21 «Una delle argomentazioni più diffuse al riguardo (chiaramente giustificazionista, va notato subito, ma non certo infondata) è che le foibe sarebbero - a parte errori ed eccessi - ritorsione ai crimini di guerra commessi da militari e fascisti italiani nel corso della loro occupazione (...). Ad essi vengono connessi i crimini della politica fascista e nazionalista (...). La tesi è stata sostenuta fino ad anni recenti, e oggi (...), viene ancora menzionata (...), anche se è sempre più pacifica(...) la constatazione del movente politico dei fatti. Ciò però vale soprattutto per i fatti del 1945 e poco per quelli del 1943, tuttora spesso oscuri e non documentati, specie in Croazia.»; p.70,71: «"i fatti del maggio 1945 sono certo caratterizzati da 'furor popolare' come più volte si è detto. Ma esso è lo scenario, e il dramma che vi si svolse aveva sostanza politica. La presenza di volontà organizzata non è dubbia. Eliminazione fisica dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e, insieme, intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di un nuovo potere."»

39.^ "La nostra è la cronaca di una storia negata annunciata: l’identificazione tout court con il nemico secondo la tragica equazione italiano uguale fascista...".[8] Dal discorso del presidente